Dolce settembre
settembre è il mese del
ripensamento sugli anni e sull’età
dopo l’estate porta il dono usato della perplessità, della perplessità
ti siedi e pensi e ricominci il
gioco della tua identità
come scintille brucian nel tuo fuoco le possibilità, le possibilità
(Canzone dei Dodici Mesi, Francesco Guccini, 1972)
Fin dal 1946 il mese di settembre per i folignati vuol dire Quintana. Risale a quell’anno, infatti, la decisione di rievocare l’antica giostra del 1613, tutto fu organizzato velocemente, in un paio di mesi, e si stabilì che la festa si sarebbe svolta la seconda e terza domenica di settembre, e anche se le date poi cambiarono quel periodo è rimasto nel cuore dei quintanari, con le meravigliose emozioni di giostra che di anno in anno diventano sempre più intense e si arricchiscono di ricordi.
Quando la grande macchina della festa è a pieno regime e i preparativi nei Rioni diventano sempre più frenetici, poiché bisogna organizzare la prova degli abiti dei figuranti, preparare il corteo storico, apprestare la taverna all’avvicinarsi della data di apertura, e poi le prove al Campo… e quella sottile preoccupazione che ci costringe a consultare il meteo più e più volte, in quei momenti può accadere che la mente ritorni ad un settembre imprecisato che sia allo stesso tempo dolcezza e malinconia.
E’ in questa circostanza che “ti siedi e pensi”, come canta Francesco Guccini nella struggente ballata Canzone dei Dodici Mesi. Ripensi ai volti dei popolani che portano i tuoi stessi colori mentre senti avvicinarsi il suono dei tamburi, al brivido, prima della gara, di quei “madonne e messeri” e “sia pur vittoria” alla lettura del Bando di Giostra.
“Ti siedi e pensi e ricominci il gioco della tua identità.” Quante cose sei stato in quel avanti e indietro fra il milleseicento e gli anni settanta, ottanta, novanta e poi duemila, duemiladieci, duemilaventi. Sei stato un nobile o una dama in abiti alla spagnola, un popolano in gradinata a tifare il tuo binomio, una bambina o un bambino con la maglietta del rione fino alle ginocchia, hai avuto al collo un fazzolettone che nel corso dell’anno hai portato al polso come un bracciale o legato allo zaino di scuola, hai gioito o ti sei disperato per le sorti della gara, sei diventato consigliere, priore, magistrato. Tutto questo e molto di più è successo in un settembre rimasto impresso nella mente.
A che punto è la notte? Ripensi alle notti quintanare con la loro magia e imprevedibilità. È il momento di rifugiarsi in taverna per scongiurare la melancolia, quel malessere autunnale descritto dagli antichi, che portava in sé un alone di tristezza e allo stesso tempo un nucleo di sublime grandiosità, l’ambivalenza di uno stato che è nostalgia e propensione ad un nuovo inizio. Questo avrebbero fatto le genti del 1613, quando settembre era la porta dell’inverno e la stagione del vino e della vite si affacciava con la sua precaria bellezza: avrebbero invocato il Dio Bacco, il divino che si ridesta con le sue imperfezioni, il più malinconico, seducente, con la corona di alloro in testa e il grappolo d’uva in mano.
Prima di ritornare al nostro frenetico fare occorre solo ritrovarci in taverna, al lume ocra delle fiaccole, per bearci del piacere quintanaro, di un bicchiere di Sagrantino con i tozzetti o di un pezzo di Rocciata, come sappiamo fare solo a Foligno.