L’abbondanza dei poveri
Nel seicento la contrapposizione tra fame e abbondanza rappresentava le due facce dei regimi alimentari esistenti, ovvero quello dei nobili, caratterizzato da una grande varietà di prodotti agroalimentari e il regime alimentare contadino e popolare, soggetto a limitazioni dovute alle carestie, all’andamento agricolo e alle restrizioni politiche sulla distribuzione del cibo.
Vi era una paura insita nella vita quotidiana del popolo: la paura della fame. Ogni gesto culinario era destinato ad estrarre sostanza dai cibi a disposizione: “molta acqua, cavoli, rape e altre verdure, un soffritto di lardo (o olio) e cipolla, aglio e sale. Se c’è si aggiunge un pezzo di carne salata di porco, oppure di vacca; quando è stagione si può sostituire la carne salata con un osso di montone o di bue. Con il brodo che si ottiene dalla lunga cottura si bagna il pane raffermo" (Rebora,1998). La vita domestica si svolgeva davanti al fuoco, tenuto sempre acceso, e al grande paiolo di rame in cui gli ortaggi, le radici, i legumi, le carcasse cuocevano nell’acqua per lunghe ore, dando vita alla corroborante zuppa quotidiana, una pietanza che ancora oggi raccoglie l’essenza di ogni cibo senza spreco. La zuppa era il piatto popolare e in certi giorni poteva trasformarsi in minestra di legumi e cereali con l’aggiunta di lardo o cotenna, magari quella avanzata dal prosciutto.
Il pane era quello della settimana e in montagna era confezionato con farine alternative a quelle di grano, come quella di segale, a volte era sostituito con polenta di ceci, di fave o di farro. Il contadino, vivendo in campagna e avendo a disposizione un piccolo appezzamento di terreno, poteva usufruire dell’autoproduzione del pane, anche se questo raramente era di frumento e molto più spesso di surrogati. Peggio andava al popolo in città che il pane se lo doveva guadagnare, essendo il salario concordato proprio sul valore di questo alimento.
Il gusto dolce, inteso come zucchero, era un miraggio, qualcosa destinato al banchetto nobile, fatta eccezione per alcuni rari pani di zucchero che si trovavano al mercato, ma di seconda scelta in quanto non sufficientemente puro per il banchetto barocco. La voglia di dolcezza si esaudiva con il miele e la frutta anche lasciata essiccare per la conservazione.
Per il resto la vita del popolo aveva un retrogusto amaro, segnata dalla fatica del lavoro e dall’incubo costante della fame. L’antidoto più efficace contro questo spettro era il sogno di un’abbondanza precaria, ma a tratti raggiungibile. Un sogno che si palesò secoli prima, fra il XII e il XIV sec., con l’opera di R. Tour: il pais de Coquaigne, in cui nel paese di Cuccagna il cibo era inesauribile e abbondante soprattutto per ciò che riguardava la carne, cibo raro nella dispensa popolare e simbolo di perdurante sazietà. E nel tempo queste opere letterarie fiorirono in tutta Europa, senza escludere l’Italia, che vide nascere il paese di Bengodi, in una nota novella del Boccaccio. Un sogno che si concretizza nelle grandi abbuffate, uno sperpero rituale nei momenti di disponibilità di cibo, in occasione delle principali ricorrenze della vita. Sono questi momenti di ostentazione e sperpero concreto, di valenza certamente propiziatoria, in cui la mensa dei poveri si avvicina, per un momento, al banchetto dei ricchi.